Un’educazione esemplare: un’educazione fascista

Dopo un anno ho riaperto la scatola di latta. Dentro, sotto le poche fotografie di famiglia che ho voluto conservare, trovo la busta di plastica. La apro. C’è una lettera intestata U.N.C.R.S.I. (Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale), sezione di Valdagno (VI). È datata 20 agosto 1997 ed è firmata dal Signor B.S. (seguono indirizzo e numero di telefono).

La lettera comincia così:

Cara Amica, Caro Amico, Camerati tutti, i Combattenti Reduci della R.S.I. di Valdagno si propongono di promuovere un bonifico esclusivamente volontario per l’accudimento e la gestione (per avere sempre una buona manutenzione) della Cripta della famiglia Mussolini a S. Cassiano di Predappio.

Ricordiamo che in questo tempio eterno, ove sono sepolti «Rachele e Benito Mussolini», s’è aggiunto il «Comandante Vittorio» scomparso recentemente il 12 giugno 1997. Siamo ancora addolorati per aver perso una parte della nostra storia.

Nella busta c’è poi un biglietto indirizzato a mio padre. Il foglietto all’interno è un biglietto da visita di Monyca Mussolini fotocopiato. È un ringraziamento. Per il denaro che mio padre, insieme ad altri, sborsò per la manutenzione della Cripta di Predappio, affinché potesse essere accogliente agli occhi di tutti noi e del mondo intero (cito testualmente dalla suddetta lettera).

Monyca Mussolini verga le seguenti righe, uguali per tutti:

Commossa ringrazio la vostra affettuosa generosità. Grata e con amore vi abbraccio.

Segue firma.

Oltre alla foto del comandante Vittorio Mussolini con epitaffio («Siate felici, non sono morto, sono ancora qui con voi con tutta l’anima»), c’è un ultimo documento. Si tratta di una cartolina raffigurante il sepolcro di Mussolini. Non è affrancata, ma riporta data e luogo: 14 settembre 1997, Villa Carpena, Forlì.

Scritto a penna, si può leggere quanto segue:

Della iniziativa del 20 Agosto 1997 – È stato consegnato nelle mani della Signora Monyca Mussolini (vedova del Comand. Vittorio Mussolini) l’assegno circolare di Lire 2.100.000. Un grazie di cuore a tutti. B.

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Sono figlia di un fascista. Anzi, mio padre si diceva «mussoliniano». Orgogliosamente. A casa nostra l’effigie di Mussolini era ovunque, a cominciare dall’ingresso. Giusto per mettere subito le cose in chiaro. Medaglie, foto, libri…

Mio padre era nato nel 1938. Era un bambino molto biondo, con occhi così cerulei da sembrare trasparenti. Forse fu per questo che i tedeschi di stanza nel suo paese lo presero in simpatia. Probabilmente ricordava loro i bambini del Großdeutsches Reich, o perlomeno quelli che Hitler avrebbe voluto per il suo impero: pura razza ariana. Con loro, coi tedeschi, mio padre andava “al foso” a lavare le camionette militari. Me ne parlò una volta soltanto. Ma mi bastò. Capii che era stato il suo imprinting.

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Durante il lockdown ho passato molto tempo a rivedere su YouTube vecchie puntate di “La storia siamo noi”, specialmente le puntate condotte da Giovanni Minoli su Ustica, la banda della Magliana, quelli della Uno bianca, e poi su Gladio, l’omicidio di Pippo Fava e quello di Paolo Borsellino, di Vittorio Bachelet, di Moro…  Sono rimasta incollata al video per seguire documentari sulla mafia e gli anni di piombo, e vecchi film come “I cento passi” di Marco Tullio Giordana, dedicato a Peppino Impastato. Ho impiegato molte ore a ricostruire un filo che dall’oggi mi riconnettesse agli avvenimenti della mia adolescenza, della mia infanzia, a quello che è accaduto in Italia in questi ultimi cinquant’anni. Il percorso storico della democrazia del mio Paese è un incubo. Sangue e cadaveri. Ideologie di morte e mafie. E depistaggi e misteri. E impunità.

Nomi di morti dimenticati. Nomi di morti eccellenti.

È stato proprio mentre vedevo la puntata di  “La storia siamo noi” sulla strage di Bologna, che ho trovato il coraggio di riaprire la scatola di latta che da un anno tengo sepolta in un armadio, qui in Germania (ironia della sorte!).

Stefano Sparti, figlio di Massimo Sparti, malavitoso vicino a esponenti di spicco dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), intervenendo nella ricostruzione dei rapporti del padre in particolare con i fratelli Fioravanti, rivela coraggiosamente anche uno spaccato della sua vita familiare, intima. «Mio padre si professava nazista, più che fascista» afferma. «Per me, la sua presenza in casa era un incubo.»  Sparti padre, infatti, non picchiava con inconcepibile violenza soltanto la moglie, Maria Teresa Venanzi, ma picchiava anche lui, bambino.

Non entro nel merito. Però queste parole, questa storia raccontata pubblicamente, hanno evocato i miei fantasmi personali. So molto bene cosa significa vivere con un fascista. So perfettamente cosa significa essere educata a «rigare dritto» da un fascista. Non ne ho mai parlato con nessuno. Lo smarrimento dei bambini è grande. Crescendo, diventa una voragine. Perché comunque da fuori tutto sembra normale. E perché comunque nessuno vuole impicciarsi. Ma è attraverso la sopraffazione quotidiana, una sopraffazione vigliacca perché perpetrata da chi è più forte, che a un certo punto sono stata in grado, nel mio piccolo, di capire come funzione la mafia. Perché la mafia non è altro che un meccanismo di potere, un meccanismo di potere all’ennesima potenza.

Mio padre comandava. Io dovevo eseguire. Non c’era altra possibilità. Altrimenti sapevo quello che mi sarebbe toccato.

Non sono, questi, anche i metodi mafiosi?

C’è chi tace e acconsente. Chi si lascia corrompere. Se uno non ci sta, lo si delegittima. Non si piega? Allora si passa alle minacce. Infine l’isolamento. Ci sono diversi gradi di violenza prima di arrivare all’omicidio.

Un giorno, avrò avuto sei anni, mio padre mi disse di non giocare con i figli di un vicino col quale aveva litigato. Non so come fu, ma disubbidii. Eravamo tutti insieme in cortile, i miei amichetti e io, quando mio padre venne a prendermi. Ricordo che mi prese a calci alzandomi da terra davanti a tutti, tanto che mi feci la pipì addosso. La cosa peggiore fu però quando, più tardi, a casa di sua sorella, si vantò della lezione che mi aveva dato. Perché «bisogna indrizarli da picoli». Nessuno disse niente. Omertà familiare.

Non sono, questi, anche i metodi mafiosi?

Da grande, molti anni dopo, ho pensato che mio padre fosse uno squilibrato. Lavorò, però, come dipendente statale tutta la vita. Non mancò mai un giorno dal posto di lavoro. Ci andava anche quando aveva la febbre. Era quel che si dice “un gran lavoratore”.

Stefano Sparti non volle più vedere suo padre. Decise di incontrarlo solo quando questi fu in punto di morte. Massimo Sparti aveva un cancro. «Ho voluto andare non per perdonare, non per vederlo morire […], ma per chiudere un cerchio…» ha affermato davanti alle telecamere di Minoli.

Anche mio padre è morto di cancro, uno dei peggiori. Sono stata con lui tutto il tempo della sua agonia, una notte lunghissima. L’ho visto rimpicciolito. Quando lo hanno cambiato – aveva il pannolone – ho visto le macchie orrende del cancro sulle sue gambe. Gli parlavo, era lucido. Nonostante la sofferenza e, credo, la paura, non si è mai lamentato. Verso mattina, senza dire niente a mia madre, sono andata in sala infermieri e ho chiesto che gli venisse somministrata la cosiddetta “sedazione palliativa terminale”.

Ho chiuso il cerchio?

No, non credo che lo chiuderò mai. Perché era mio padre.

Quando ripenso a lui, penso a quello che la sua parabola mi ha insegnato: che la violenza non paga, perché alla fine vince sempre la morte. Su tutto e su tutti.

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Uniamo le forze, i nostri ideali per un’unica cosa comune, per la sopravvivenza di questo tempio eterno, faro di luce per tutti gli Italiani credenti.

Confidiamo come sempre sul vostro impegno e sulla vostra generosità.

Grazie per quanto sarà fatto.

Tutto il contributo raccolto sarà consegnato nelle mani della signora «Monyca Mussolini».

La lettera del Signor B.S. si chiude così. La ripiego e la ripongo nella busta di plastica da dove l’ho tirata fuori qualche ora fa. Prima di vendere la casa dei miei genitori, ho portato in discarica tutte le medaglie e le foto di Mussolini, ho buttato via tutto, ma questi documenti ho deciso di conservarli. Per le mie figlie. Per i miei nipoti, se ne avrò. Perché sappiano che non esiste alcun «tempio eterno», alcun «faro di luce». Perché si ricordino che dobbiamo rispondere solo alla nostra coscienza. E che possiamo, e dobbiamo, restare umani.

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