Non so perché, non so da dove sia venuta. Sospetto che sia cresciuta con me, piccola all’inizio e poi sempre più grande, fino a occupare tutto, tutto quello che credo di essere, che mi illudo di essere. Adesso si è rivelata interamente e non so cosa farò. Di sicuro so che questa epifania mi sta sospingendo verso qualcosa.
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Sono seduta di fronte alla stufa. Sono le sei e mezza di sera e fuori è buio. I cumuli di neve si sono lasciati consumare da una pioggerella sottile tutto il giorno, rilucendo nella nebbia. Assottigliandosi al piede, hanno svelato chiazze di terra impregnate d’acqua, torbide, e il verde stridulo di nuove primule in agguato. Ma hanno resistito, i cumuli di neve. Ci vorrà ancora un po’ prima che lascino il campo a fango e disfacimento, allo squallore di giornate di attesa, ancora lunghe seppure già più luminose.
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Nella mia primavera sognavo alla rinfusa, sapevo di braccare qualcosa, ma mi lasciavo distrarre da codici nuovi, che non conoscevo e mi obbligavo, obbligata, a conoscere. Con ostinazione mi imponevo, la scuola in primis mi imponeva, di capire. Bisognava. Per riuscire ci voleva un buon addestramento. Migliore l’addestramento, migliore la riuscita in società. Il premio. Se “l’ascensore sociale” a un certo punto si bloccava, dai ranghi inferiori ci si attendeva, si esigeva, comunque, il rispetto dei ruoli. La buona creanza. E io ero una cagna beneducata. Senz’altro. Ai primi innocui morsetti, avevo subito compreso chi erano i padroni e quale sarebbe stato il mio posto. In società. Segretamente, qualche volta fantasticavo ancora di ritrovare la pista, acciuffare la mia preda. Ma mi avevano insegnato a dubitare del mio istinto. Di me.
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Ricordo un giorno di neve candida, in via Celoria a Milano, tanti anni fa. Mensa universitaria, piedi bagnati, congelati, un cappottino rosso che non mi scaldava niente. Avevo “l’adesso” sulla punta delle dita, riuscivo a respirarlo in ogni fibra del mio corpo. Per un tempo lungo un respiro, sono stata al centro della fragorosa intensità dell’essere vivi.
L’unica cosa che conta.
Io, però, ero beneducata. Come mi avevano istruito, volevo, dovevo capire.
Sertillanges, La vita intellettuale.
Parole, cattedrali di parole. Sistemi. Teorie. Discorsi. E libri. Per anni ho preparato il mio harakiri. Accuratamente. Senza peraltro mai giungere fino in fondo.
All’ultimo c’era sempre un odore, un effluvio animale, così che la sacra lama delle parole rimaneva a mezz’aria.
Cogito, ergo sum.
No.
Respiro, ergo sum.
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Dopo tanti anni di parole ho deciso di adottare un cane. Un pastore tedesco. L’ho già incontrato. Siamo rimasti insieme, da soli, in una stanza, per una ventina di minuti. Ci siamo osservati. L’ho osservato. Un’altra specie, di cui non conosco il linguaggio. Un individuo di un’altra specie, che non ha letto Sertillanges. Eppure nei venti minuti che abbiamo passato insieme sono stata dentro a quella situazione. Aderente. Attenta. Lo stesso interesse attento, liberatorio, che provo quando cammino nel bosco. E cerco di farmi da parte, di imparare a stare dove sono. Una tra le innumerevoli specie.
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Non è incredibile la tracotanza con cui stiamo nel mondo?
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Letizia Moratti, attuale vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia, ha chiesto che la quantità dei vaccini anti Covid fosse calcolata e assegnata alle regioni, tra gli altri parametri, anche in base al PIL prodotto.
Ne deduco che secondo la Signora Letizia Moratti la specie umana si divide in diverse sottospecie caratterizzate dalla maggiore o minore produzione di PIL.
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Ho spento la radio. Ho buttato nella stufa i giornali di oggi. Ho ripreso in mano un vecchio libro, tutto sottolineato a matita, quel vecchio saggio divulgativo di Konrad Lorenz, L’anello di Re Salomone (Biblioteca Adelphi 15), che mi sono portata dietro in tutti i miei traslochi. Per qualche ora ho ripercorso le storie di cani e gatti, scimmie e paperi, pesci e tassi dello zoologo austriaco. Per qualche ora sono tornata in via Celoria a Milano, alla mensa universitaria, quel giorno di tanti anni fa. Mi sono ritrovata di nuovo seduta in mezzo agli studenti di fisica, di veterinaria, a quelli di scienze naturali… C’era la neve, avevo i piedi bagnati, congelati e un cappottino rosso che non mi scaldava niente. Assorta nella lettura, ho provato a ri-sentire “l’adesso” di allora. Perché si può, si può sentirlo, “l’adesso”. Ci vuole addestramento. Un’altra “specie” di addestramento.
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Purtroppo quelli come me, i fuori pista, possono sperare solo nella miracolosa circostanza di un istante. All’ennesima potenza. Che ci sbatta a terra. Muti. Travolti. Come folgorati.
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Esattamente come mi è successo un paio di giorni fa, quando al canile municipale di Piacenza sono rimasta da sola con il pastore tedesco Rex, che non mi conosceva e non conoscevo. In quella manciata di minuti, la fragorosa intensità dell’essere vivi insieme su questa terra, io e lui, io e un cane, ha spalancato un sentire. “L’adesso”, appunto. Che forse non è altro che lo struggente ricordo dell’Eden, il giardino-paradiso perduto.
Là dove siamo stati. Là dove ci siamo appartenuti. Tutti.
Prima della conoscenza.
P.S.
Foto di copertina: Max Dupain (Australia, 1911 – 1992), via Marco Barsanti Photography Blog.
Il titolo del post è una citazione dal volume di Annie Dillard, Pellegrinaggio al Tinker Creek, Bompiani Overlook 2019, trad. a cura di Gabriella Tonoli.