Cara Greta, ti stiamo fregando

Suppergiù intorno ai vent’anni, da Milano decisi di trasferirmi per la prima volta in campagna. La porzione di cascina che avevo preso in affitto stava a mollo nelle risaie del Parco del Ticino, era piuttosto squallida e, come da copione che si sarebbe riproposto in quasi tutte le mie case a venire, non aveva il riscaldamento. Però c’era il camino. E proprio perché di camini, tiraggio e legna all’epoca non capivo un’acca, ero alle stelle: la cosa mi pareva alquanto romantica ed ero sicura che in qualche modo avrei fatto. E comunque il fitto per tutto quel bendidio di spazio era, in confronto alla spesa per le due stanzette di Milano, irrisorio e il paesaggio poi, una volta addomesticate le zanzare a colpi di Autan, una favola: cieli d’acqua in tutte le salse e oltre trecento specie di uccelli, tra cui le cicogne bianche, che solo a vederle planare sulle marcite o librarsi sul fiume mi sentivo un tuffo al cuore, sorpresa e incantata che potessero continuare a esistere a così pochi chilometri, in fondo, dalla fucina della futura Tangentopoli. Mi piaceva pensare che loro, le cicogne, e tutta quanta la restante fauna, dei rampanti e dei parvenu della Milano da bere semplicemente se ne infischiassero. Cosa che del resto ero risoluta a fare anch’io, stupidamente convinta com’ero che pur cambiando tutto, niente potesse davvero arrivare a scalfire quell’angolo di paradiso (e la mia giovinezza).

I miei non capivano. Ma mia nonna, la madre di mio padre, l’unica volta che si spostò dal Veneto per venirmi a trovare, venne con un presente che sapeva mi avrebbe fatto felice come una pasqua: mi portò due galline ovaiole, ibridi ISA Brown (ma il nome lei non lo sapeva), che pomposamente battezzai subito Ines e Apollonia per via del loro aspetto, essendo infatti la prima tanto nervosa e allampanata, quanto la seconda placida e curvy. Di Ines e Apollonia non mi curavo particolarmente, a parte un po’ di granaglie e gli avanzi di cucina, soprattutto pane e verdure. Loro infatti scorrazzavano in lungo e in largo per l’aia decidendo del proprio menu abbastanza autonomamente e bevendo, questo sì, una quantità impossibile di acqua, che facevo comunque in modo di non fargli mancare mai. All’imbrunire infilavano la porta del pollaio, io tiravo giù lo sportelletto in legno e questo era tutto. Andavamo d’amore e d’accordo e le uova non mi mancarono mai.

Questo accadeva qualche lustro fa, neanche poi tanti. Oggi, dopo il cincischiare che s’è fatto protocollo dopo protocollo, scopro che ci restano forse dieci anni per invertire la rotta: il pianeta sarebbe prossimo al collasso.

Michelangelo, Il peccato originale e la Cacciata dall’Eden (Cappella Sistina, Città del Vaticano).

Ogni giorno i media ci danno notizia di nuove catastrofi provocate dai cambiamenti climatici. Quotidianamente gli “esperti” – scienziati, economisti o politologi che siano – ci propinano dati, grafici, ricette. I capi di stato convocano summit dove si discute, si propongono strategie, si decide il Pacchetto per il clima e l’energia 2020. Le “narrazioni”, per usare un termine caro ai miei colleghi giornalisti, in merito all’argomento ambiente si sono trasformate in incubi ai quali è ormai difficile sottrarsi.

Ho la nausea. Non ne posso più. I ragazzi si ribellano. E fanno bene. Ma questa loro «climate hysteria», il modo in cui è gestita dai media e dagli attori in gioco, ho la sgradevole impressione che sia e resti soltanto, appunto, una climate hysteria, da calvalcare come tante altre battaglie in vista di un consenso (elettorale).

Li stanno, li stiamo prendendo in giro.

Perché?

Perché la prima risposta che ci arriva dai Piani Alti è un déjà-vu: nuove tasse, questa volta in nome dell’ambiente.

Hieronymus Bosch, Giardino delle delizie (o Il Millennio), dettaglio (Museo del Prado, Madrid).

Quando andavo alle elementari, mi ricordo che la prima ora in classe il mio maestro ci leggeva sempre qualcosa dai quotidiani, dai settimanali, da qualche libro. Cose adatte a noi, naturalmente: un modo concreto per iniziarci alla lettura solleticando la nostra curiosità. Dopo ci chiedeva se avevamo capito e cosa, e noi si riassumeva (e qualche volta si faceva un temino), liberi di porgli a nostra volta delle domande. Tra le tante cose che quel maestro ci andava spiegando, ricordo che rimasi molto impressionata dal discorso sull’incremento demografico. Lui lo leggeva positivamente, per lui l’incremento demografico era un segno di progresso. Orgogliosamente il maestro ci disse infatti che sulla terra eravamo arrivati a essere quasi tre miliardi. Allora ero troppo piccola per riuscire a capire, per quanto mi sforzassi il senso di quella cifra mi sfuggiva. Rammento, però, che ne fui terrorizzata come da un mostro.

Perché ne parlo, cosa c’entra col clima?

Perché in questo istante, mentre sto scrivendo, il numero di individui sulla terra ha superato i 7,7 miliardi e come quando andavo alle elementari questa cifra mi pare egualmente terrificante, anche se per ragioni diverse: siamo in troppi.

Paul Gauguin, Nave nave Moe (Acqua deliziosa) (Hermitage, San Pietroburgo).

Ultimamente ho letto di una grande fabbrica di automobili tedesca, quasi completamente automatizzata, che produce oltre mille macchine al giorno. Mi sono venuti i crampi allo stomaco.

Ho pensato…

… Queste auto, e quelle che ogni giorno sono fabbricate in tutto il mondo, in qualche modo dovranno essere piazzate, e che si tratti di petrolio o elettricità, queste migliaia e migliaia di auto avranno bisogno, per funzionare, di energia. Ora, a meno che non passi davvero l’idea dei muri a confine degli stati, come nel peggiore scenario fantascientifico di Fuga per il futuro, interpretato da Nicolas Cage, nessuno di quelli che ce l’ha già, vorrà rinunciare alla sua vettura, mentre chi non ce l’ha ancora, farà di tutto per averla. Inoltre, per far filare questa caterva di automobili, democraticamente vendute a tutti coloro che possono permettersi di acquistarle (magari con comode rate mensili) dall’India all’Africa alla Cina (senza dimenticare i vari incentivi per le rottamazioni in uso in Europa e in America per sostituire il vecchio parco macchine con modelli sempre più “adeguati”), occorreranno pure nuove strade, tante nuove e bellissime strade. Cioè cemento e asfalto. (In Italia taluni lo chiamano «far ripartire l’economia».) D’altra parte, i lavoratori devono poter lavorare: se le fabbriche e l’indotto dell’automobile chiudessero i battenti, cosa ne sarebbe dei loro consumi? Niente soldi uguale niente consumi. E le banche e le assicurazioni? E i titoli in Borsa?

Questo è solo un esempio. Potremmo dire lo stesso per la produzione di cellulari, condizionatori e frigoriferi, di lavatrici e lavastoviglie e fon… O magari potremmo concentrarci sugli scarichi degli aerei che trasportano day by day frutta e verdura da una parte all’altra del mondo, dei TIR che fanno avanti e indietro sulle autostrade carichi di merci, dei furgoni che ogni santa mattina partono stracarichi per consegnarci i nostri ultimi acquisti on-line… Quanti posti di lavoro salterebbero?

La verità è che il problema del clima è un colossale e globale problema politico, che concerne i modelli di sviluppo e una quantità di altri fattori piuttosto incontrollabili, come la sete di potere e di denaro (leggi lobbies), nonché l’ignoranza dilagante da cui scaturiscono la paura e l’odio e i vari nazionalismi: tutti elementi che a mio avviso concorrono al pari delle teorie economiche a costruire il tessuto sociale, e quindi i nostri “bisogni”. E quindi il nostro ambiente.

Perché tutto si collega.

Marc Chagall, Il Paradiso (Museo Chagall, Nizza).

I ragazzi dicono che gli stiamo scippando il futuro, però dalla loro hanno purtroppo solo l’entusiasmo e l’innocenza dell’età: sono troppo giovani per elaborare un’idea di futuro che tenga conto delle innumerevoli dinamiche che entrano in gioco a livello globale e che in qualche modo occorre governare. Al Signor Trump di Greta Thunberg non importa un tubo. O meglio: potrebbe importargliene se fosse sicuro di ricavarne un vantaggio personale e per i suoi adepti. Esattamente come certi showmen del nostro parlamento (in questo caso, scritto minuscolo!).

Dunque, che si fa? La guerra, «sola igiene del mondo»?

È una ipotesi. Scellerata, ma comunque già in atto.  Perché ci sono guerre combattute con le armi chimiche e le bombe. Ma ci sono anche guerre combattute lasciando affogare la gente in mare. Ci sono guerre combattute bruciando le foreste (non ultima quella dell’Amazzonia). Ci sono guerre combattute speculando in Borsa. Ci sono guerre combattute a colpi di mafie… niente di cui preoccuparsi troppo, in fondo. Almeno per il momento. Perché da noi, in Italia, si sta ancora bene. Tra bulli che «omo de panza, omo de sostanza» e «gente allegra il ciel l’aiuta» che, pantaloni alla zuava e zainetto in spalla, mettono su l’ennesimo circo, a differenza di altri posti del pianeta, qui in un modo o nell’altro si continua a vivacchiare e, seppure a denti stretti, qualche volta anche a riderci su.

[…]

No ragazzi, non fidatevi… Per quanto incredibile, ignobile e nefasto sia, vi stiamo fregando.

Ci stiamo fregando tutti quanti.

Henri Rousseau, The Dream (Museum of Modern Art, New York).

 

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