Perché non ci sono state grandi artiste?

È una domanda. Ed è il titolo di un pamphlet scritto nel 1970 dall’americana Linda Nochlin, storica dell’arte. Da noi, in Italia, il breve saggio uscito nel 1971 su ARTnews fu pubblicato per la prima volta da Einaudi sei anni dopo, nel 1977. Perché ne parlo oggi? Innanzitutto per ricordare la Nochlin, scomparsa nell’ottobre dell’anno scorso. E poi perché la domanda, provocatoria, “perché non ci sono state grandi artiste?” mi sembra più che mai attuale. Non tanto nel merito, che non vuole essere argomento di questa riflessione, quanto in relazione ai presupposti istituzionali che la Nochlin individuava a monte del suo quesito, premesse che nel suo lavoro riguardavano specificatamente le donne, ma non lasciavano fuori gli artisti uomini.

Artista: Cindy Sherman (b. 1954, USA).

Che ruolo giocano le istituzioni e i loro apparati nel mondo dell’arte?

(Della produzione artistica. Della veicolazione culturale della produzione artistica. Del mercato della produzione artistica. Della creazione di miti intorno alla produzione artistica.)

si chiedeva la Nochlin.

A quasi cinquant’anni di distanza è questo, a mio avviso, uno dei nodi del suo pamphlet che vale la pena riconsiderare. E non solo da un osservatorio particolare – l’editoria e le professioni di settore, l’università o il ginepraio del mercato – ma dalla strada, da persone comuni.

Artista: Jenny Holzer (b. 1950, USA).

Aveva ragione la Nochlin: l’apparente naturalezza di domande come “perché non ci sono state grandi artiste?” è fuorviante. Dovremmo invece sempre chiederci «chi formula tali questioni e perché».

Per Linda Nochlin la discriminazione di genere nell’arte agganciava in realtà ben altre questioni, cruciali all’epoca tanto per le donne quanto per gli uomini.

Questioni politiche come i rapporti di classe, per esempio. O il mito dell’artista genio.

Artista: Barbara Kruger (b. 1945, USA).

E oggi? Quali sono, oggi, le strategie di depistaggio che si applicano (anche) al mondo dell’arte? Perché che sia in atto un depistamento è evidente: dal ruolo della scuola, con i suoi obsoleti e inutili programmi ministeriali, fino all’organizzazione delle annuali mostre-evento sponsorizzate da grandi fondazioni bancarie, abbiamo soltanto da aprire gli occhi.

Non si tratta di buttare via acqua sporca e pupo insieme: certe rassegne come quelle dell’inverno passato – Van Gogh a Vicenza, Caravaggio a Milano – possono perfino risultare utili. Quello che però sfugge all’opinione pubblica è che attorno a queste colossali macchine organizzative si muovono altrettanto colossali interessi economici, orientati solo apparentemente alla promozione dell’arte in quanto tale. Il senso di queste operazioni è tutt’altro: è di investire, letteralmente, in un artista morto o in uno di grido, le cui quotazioni di mercato siano alle stelle. In tal modo non solo ci si assicura un cospicuo ritorno economico, ma si ottiene anche un altro importante risultato: quello della diseducazione all’arte. La portata rivoluzionaria di Van Gogh o di Caravaggio è bypassata: diventa narrazione mitica. Con la complicità di gran parte dei media si allestiscono città gadget e si registra il fenomeno delle presenze. L’arte si trasforma in business, in spettacolo “culturale” da consumare come tutto il resto. L’elemento politico, vivo, di quella che gli stessi organizzatori definiscono la «grande arte» è opportunamente annacquato e quindi reso “democraticamente” fruibile.

Artista: Vanessa Beecroft (b. 1969, Italia).

Il punto è che al fondo di qualsiasi riflessione sull’arte, questa come altre, ci sta appunto il “senso” dell’arte. Se siamo d’accordo ad affermare che l’arte non può essere che un atto liberatorio e di sconfinamento, allora dovremmo anche chiederci, oggi più che mai: è davvero credibile che le istituzioni pubbliche e private vogliano una divulgazione di massa di questo atto liberatorio e di sconfinamento?

Artista: Shirin Neshat (b. 1957, Iran).

A conclusione del suo pamphlet, agli inizi degli anni Settanta, Linda Nochlin scriveva:

«… le donne possono smascherare le debolezze istituzionali e concettuali; e, liquidata la falsa coscienza, possono contribuire alla creazione di istituzioni il cui vero pensiero e la vera grandezza siano sfide aperte a tutti coloro che, uomini o donne, abbiano il coraggio di osare l’indispensabile salto nell’ignoto».

A quanto pare, ormai negli anni Venti di questo XXI secolo, le sfide sono ancora tutte lì.

 

N.B. In copertina uno stralcio di Persepolis. Histoire d’une femme insoumise, fumetto storico/autobiografico dell’artista iraniana Marjane Satrapi.

 

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