L’arte contemporanea in Italia? Ecco i magnifici sei

“Bella Italia”: questo il titolo di Art – Das Kunstmagazin lo scorso agosto. Proposito in copertina: riscoprire il nostro Paese e la sua arte attraverso i settantasei luoghi preferiti dalla redazione.

Foto seducenti, reportage accurati. Io però mi sono fermata a pagina 80. In doppia c’è un bel ritratto (di Fabrizio Esposito) dell’artista Sara Enrico, vincitrice insieme a Ludovica Carbotta del “Premio New York” 2017-18 per gli artisti italiani emergenti.

L’articolo di otto pagine che segue, Umrisse einer neuen zeit, di Ute Diehl, tratta infatti proprio di questo, degli artisti italiani che si stanno facendo notare nel panorama dell’arte contemporanea internazionale. E fa i nomi. Sei, per la precisione. Presentati in quest’ordine: Sara Enrico, Giorgio Andreotta Calò, Lara Favaretto, Roberto Cuoghi, Invernomuto, Silvia Giambrone.

La biografia e un breve curriculun con le esperienze più significative: le partecipazioni, le mostre, i premi. Qualche ragguaglio sulla tecnica, i medium preferiti. Immagini. Ciascun artista ha il suo spazio e gli spazi sono più o meno equivalenti.

Ma perché proprio loro? mi domando. Con quale criterio sono stati scelti?

So apriori che la mia è una domanda a perdere. Quando si parla di arte contemporanea trovare il bandolo della matassa è sempre un’impresa. Dal magazine passo quindi a una ricognizione più approfondita.

Chi sono questi “magnifici sei” che si sono conquistati il palmarès di una delle più prestigiose riviste d’arte tedesche?

Sara Enrico

Biellese, classe 1979, vive a Torino. L’esperienza del restauro, dalla quale proviene, l’ha orientata all’osservazione dei materiali, in particolare la tela da pittura. Una elementarità che attraverso la sperimentazione continua di processi differenti, «dalla produzione industriale a quella artigianale, da una lavorazione manuale a una digitale», conduce l’artista all’individuazione di un «lessico». Un lessico «perennemente cangiante», che supera «le regolarità del tema caratterizzante» (il riferimento è a Debussy).

Per avvicinare Sara Enrico parto da qui (oltre che dal suo sito), da un’intervista rilasciata l’anno scorso ad Artribune.

“Dialoghi di Estetica. Parola a Sara Enrico” esplicita già nel titolo la qualità della ricerca dell’artista. Sia per l’intervista che per le opere ho bisogno di tempo. Non è semplice capire, entrare in relazione. Non immediatamente, almeno. Take your time, mi dico. (Buona regola sempre, e comunque di sicuro per la contemporaneità.)

©Sara Enrico, “Untitled”, 2018. (Canvas, oil color, 4 pieces / 230x20x20 cm.)

 

Giorgio Andreotta Calò

È nato a Venezia nel 1979. Vita e lavoro si svolgono tra questa città e quell’altra, sempre sull’acqua, che è Amsterdam. Ed è appunto l’acqua l’elemento fondante di moltissime opere dell’artista veneto, sia che si tratti di installazioni ambientali che di scultura. È un suo tratto distintivo: l’acqua che distrugge silenziosamente le fondamenta di Venezia, l’acqua come metafora della distruzione che l’uomo, natura esso stesso, opera altrettanto incessantemente. (Flash Art)

Tematica intersecata dai suoi lavori è inevitabilmente quella del “tempo”.

«Le Clessidre sono appunto una formalizzazione scultorea di un processo di erosione e scansione del tempo» ha spiegato Andreotta Calò a proposito di una delle sue prime opere che ha destato clamore… Fino alla spettacolare installazione site-specific, Senza titolo (La fine del mondo), presentata alla Biennale di Venezia l’anno scorso. Ancora acqua, questa volta riflettente le capriate del soffitto del Padiglione Italia e orchestrata in una architettura complessa che proponeva in modo straniante anche una riflessione sulla simbologia del doppio. Tempi e immaginari oscuri, lenti, forse pericolosi: dall’artista, già vincitore del “Premio New York” 2014, una scenografia fluttuante di forte impatto emotivo.

Giorgio Andreotta Calò, “Senza titolo (La fine del mondo)”, 2017.
Padiglione Italia, 57. Esposizione Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia. Foto ©Nuvola Ravera.

 

Lara Favaretto

Veneta anche lei, Lara Favaretto è nata nel 1973 a Treviso. «Non vincolata da alcuna tecnica, ma tesa invece all’invenzione dei propri strumenti espressivi, l’artista produce video, sculture, fotografie e disegni, ma più spesso realizza installazioni o performance.» (Castello di Rivoli) Dalle colorate spazzole da autolavaggio che girando su se stesse vanno a esaurirsi, al tema della festa come momento separato dal quotidiano, dono meraviglioso, la ricerca dell’artista, forse influenzata in questo anche dal suo interesse per la cultura Sinti, punta alla creazione di epifanie temporali in dialogo diretto con gli spettatori, che sono chiamati a rispondere attivamente.

Simbolici insieme dell’effimero e della festa, i coriandoli sono stati tra i materiali che l’artista ha utilizzato per alcune delle sue più interessanti installazioni. Organizzati in cubi soggetti alle leggi dell’entropia e al “passaggio” dei visitatori, hanno dato forma al pensiero di Lara Favaretto:

«È tutto al limite, sembra come se tutto fosse precario, da ripensare. È come se tutto mi piacesse solo se regolato dalla possibilità unica e fortuitamente ripetibile, come un’apparizione.» (Flash Art)

Lara Favaretto.
The first gallery in the #CarnegieInternational is peppered with these giant cubes of compressed confetti that with time will collapse into formless piles. Jestem by Lara Favaretto @cmoa

 

Roberto Cuoghi

Modenese (1973), con studio in un vecchio magazzino alimentare alla periferia di Milano, Roberto Cuoghi è sicuramente un artista particolare. Sperimentatore indefesso di tutto ciò che può interessarlo, il suo lavoro rivendica la totale autonomia del processo creativo. Dato che i suoi percorsi ammettono tutte le tecniche e che nulla è delegato ad altri, il tempo che l’artista dedica alla realizzazione delle sue opere si dilata.

«Io utilizzo una competenza che non ho, non so fare nulla di quello che faccio, e quindi mi vedo costretto a ripeterlo centinaia di volte. Quando sono sul punto di aver imparato, allora, il mio lavoro è finito. È una forma di privilegio non avere un’educazione specifica, è un metodo che obbliga a immaginare tutto» ha dichiarato Cuoghi.

Di qui, l’idea di realizzare un cartone animato, sculture in 3D, comporre musica… Esperienze che stravolgendo i consueti codici d’uso creano nuovi canoni, spiazzanti perché l’artista non imita.

«Quando il risultato coincide con l’idea iniziale, allora è la morte» afferma.

Roberto Cuoghi, “Senza titolo (Untitled)”, 2009.
Stampa su carta cotone e cera cm 70 x 45 Ed 3/5. Collezione ACACIA, Milano, Museo del Novecento.

 

Invernomuto

Dietro questo pseudonimo ci sono due giovani artisti cresciuti a Vernasca, in provincia di Piacenza: Simone Bertuzzi (1983) e Simone Trabucchi (1982). La loro collaborazione, iniziata nel 2003, si apre ulteriormente anche ad altri artisti, mutuando pratiche in uso nel mondo musicale e più in generale tipiche del network. La questione dell’autorialità è stata, ed è tuttora, una delle tematiche affrontate.

Nel loro sito si presentano da soli. Poche righe chiare (in inglese), che senza giri di parole vanno subito al sodo. In sintesi li interessa tutto ciò che resta delle sottoculture, che esplorano attraverso media differenti: principalmente suoni e immagini, ma anche scultura, pubblicazioni e performance. In questi processi, i materiali non autentici giocano un ruolo fondamentale. Lo scopo è enfatizzare le realtà fittizie da cui Invernomuto prende spunto.

 

Silvia Giambrone

Siciliana di Agrigento (1981), Silvia Giambrone vive e lavora tra Roma e Londra. A fornire le coordinate del  suo agire artistico è lei stessa. Sul suo sito (e blog) scrive quanto segue:

«Attraverso l’utilizzo di diversi linguaggi – performance, installazione, scultura, suono, video – il mio lavoro esplora le politiche e le pratiche del corpo con una particolare attenzione alle forme più sotterranee di assoggettamento. La mia ricerca indaga la dimensione politica dell’intimità poiché essa è il terreno in cui si radicano le forze più misteriose di ognuno. Osservando con sospetto il rapporto tra le relazioni e gli oggetti, che si offrono sempre più come simulacri degli aspetti più reconditi delle dinamiche relazionali, il mio lavoro opera una ricognizione sul domestico e sulle sue tensioni più profonde. Ritengo infatti che la violenza sia un linguaggio e che proprio l’ambiente domestico sia il luogo in cui primariamente si venga addomesticati alla possibilità della violenza stessa».

 

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